C’è un tipo di cinema che non cerca il compiacimento, né l’intrattenimento, ma preferisce spingere lo spettatore in una zona di incertezza percettiva e affettiva. Nessun Domani, il nuovo film di Davide Campagna, prodotto dalla The Palma Movie, si colloca esattamente in questa linea: un racconto che non si affida alla narrazione tradizionale, ma lavora sul sottotesto, sull’irregolarità delle emozioni, sull’inquietudine come strumento attivo.

















Attraverso una scrittura visiva rigorosa e una recitazione priva di filtri, Davide Campagna mette in scena corpi e relazioni che non vogliono essere letti, ma semplicemente esposti.
”L’unico modo per far percepire allo spettatore il disagio dei personaggi è far vivere il disagio stesso allo spettatore: è stata fatta una ricerca sul disagio, su come farla provare senza imporla.” Davide Campagna



Il disagio che il film genera non è una conseguenza casuale: è una forma di precisione. Un dispositivo formale studiato per restituire una realtà che non consola, ma che pulsa di vita in ogni contraddizione.
In Nessun Domani, Campagna costruisce un’esperienza cinematografica che rinuncia fin dall’inizio a qualsiasi forma di complicità con lo spettatore. Non cerca di conquistarlo, né di rassicurarlo. Al contrario: lo disloca, lo espone, lo interroga. E lo fa attraverso una grammatica visiva precisa, pensata con cura in ogni dettaglio — dal ritmo interno delle inquadrature alla densità emotiva della recitazione.
Il disagio che attraversa l’intero film non è il prodotto di un’estetica della crudezza, ma l’effetto calibrato di un sistema narrativo progettato per generare attrito, per spingere chi guarda fuori dalla comfort zone delle dinamiche previste. Non c’è shock, né compiacimento. C’è una sottrazione: di coordinate, di senso morale, di logiche drammaturgiche codificate.
Una regia che organizza lo spaesamento
L’originalità di Davide Campagna si manifesta nel modo in cui la messa in scena non forza mai l’inverosimile, ma lavora sulla soglia della normalità. È lì che si genera il disagio: nella stranezza sottile delle interazioni, nella tempistica spiazzante di certi silenzi, nei gesti che sfuggono alla semplificazione narrativa.
Ogni inquadratura è costruita per suggerire qualcosa che sta per accadere, e poi non accade. O accade altrove. Il montaggio evita la soluzione facile; la fotografia non sottolinea, ma accompagna; il suono è crudo, a tratti assente, lasciando che siano i corpi e i respiri a raccontare.
Eppure il film non risulta mai lento. Al contrario: riesce a tenere lo spettatore costantemente in tensione, inchiodato allo schermo. Scorre via in un tempo interno coerente, e quando finisce lascia una sensazione insolita — ancora una volta un leggero disagio – come se la mente dello spettatore volesse rimanere lì, proseguire oltre, colmare l’assenza. Eppure la storia si conclude, ogni cerchio si chiude, ma tu vorresti vivere ancora quella sensazione che ti ha lasciato.
Nessun Domani non turba per ciò che mostra, ma per ciò che lascia in sospeso, per il continuo slittamento del senso e dell’identificazione. E in questo richiama certo cinema europeo post-dogma, ma con una coerenza autoriale del tutto personale.
Attori che non interpretano: si espongono
Al centro di questo dispositivo formale c’è una recitazione che sorprende per il suo grado di esposizione emotiva. Gli attori non interpretano ruoli: li attraversano, consegnando allo spettatore personaggi vivi, mai ridotti a funzioni drammaturgiche.
Emma Di Dio Faranna, nel ruolo di Miriam, incarna una figura ambigua, sempre in bilico tra attrazione e rifiuto, impulso e fuga. Il suo corpo, la sua voce, raccontano la dipendenza, il bisogno, la confusione tra amore e autodistruzione.
Davide Campagna, nei panni di Riccardo Sorcanera, costruisce una presenza che sfugge a qualsiasi stereotipo criminale. Il suo personaggio vive nella parola, nel gioco linguistico — e proprio lì, in quella verbosità, si annida una violenza dissimulata, una fragilità segreta. Il loro rapporto è un movimento continuo di disallineamento: una dinamica affettiva disturbante perché non catalogabile.
Molto efficace anche la presenza di Massimo “G‑Max” Rosa, noto come rapper e voce storica dei Flaminio Maphia, nel ruolo del boss Spadone. La sua presenza – frutto di anni tra musica, televisione e recitazione, non trascende in un personaggio stereotipato, ma regge la specificità della sua matrice artistica, incarnando un potere grottesco, a tratti comico, mai banale.
Realismo instabile, verosimiglianza disturbante
Uno degli aspetti più riusciti del film è la sua capacità di rendere straordinari dei personaggi ordinari, senza mai ricorrere a simbolismi o caricature. I gesti sono credibili, ma sempre un passo oltre le aspettative. Ne nasce una verosimiglianza disturbante, che non rassicura ma trattiene. Lo spettatore resta in ascolto, teso, perché ciò che vede potrebbe accadere davvero — ma non è certo di voler essere presente.
La città — una Roma marginale, mai estetizzata — diventa uno spazio emotivo, più che geografico. Gli interni sono stretti, i corridoi allungati, gli esterni carichi di vuoto. Nessun Domani lavora su un realismo deformato, che non rinuncia all’autenticità ma la piega a un’esperienza percettiva intensa, spesso straniante.
Un film che non accoglie, ma abita
Nessun Domani è, in definitiva, un film che non chiede di essere amato, ma abitato. Non offre redenzione, ma attraversamento. Non cerca l’empatia, ma l’esposizione emotiva. È un film che ti costringe a stare dentro qualcosa, anche quando vorresti uscirne.
Il disagio che provoca non è un effetto collaterale. È il centro della sua ricerca. Perché ci sono storie che non servono a confermare ciò che già sappiamo, ma a farci sentire qualcosa che non sapevamo nemmeno di voler provare.
Ed è in questo paradosso che Nessun Domani trova la sua forza più grande.